Il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, previsto fino al 16 maggio dal decreto Cura Italia, ha cessato i suoi effetti da sabato scorso. È questo uno degli effetti del ritardo nella pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Rilancio, annunziato dal Premier Conte in conferenza stampa mercoledì 13 maggio ma ancora alle prese con il giudizio del Mef sulle relative coperture. Il Decreto Rilancio contiene infatti anche la proroga del divieto di licenziamento fino al 17 agosto, ma è evidente che finché non entrerà in vigore non esisterà alcun divieto.
Non c’è retroattività
Il divieto non può essere retroattivo Dunque, si è creato questo vulnus nella norma che ricrea le condizioni esistenti nella normalità, cioè fino al 17 marzo scorso, stando entrata in vigore del Cura Italia. Nè la pubblicazione in G.U. del Decreto Rilancio può sanare retroattivamente questo «buco». Sono dunque ad oggi tre i giorni in cui si è potuto legittimamente licenziare per giustificati motivi oggettivi, che in questo momento di grande difficoltà economica degli imprenditori sono assolutamente veritieri stante la crisi esistente. E le aziende in difficoltà lo stanno già facendo utilizzando proprio questa finestra normativa.
Divieto di licenziamento senza cassa integrazione
Questa particolare situazione fa rilevare ancor di più una contraddizione esistente nelle bozze di Decreto Rilancio. Infatti, a fronte del divieto di licenziamento fino al 17 agosto, non sono previsti ammortizzatori sociali per il medesimo periodo. La Cassa Integrazione prevista è di sole 5 settimane, in aggiunta alle 9 contenute nel Cura Italia; mentre altre 4 sono usufruibili solo dopo l’1 settembre prossimo. Quindi, ultimate le nuove 5 settimane (attorno alla prima.settimana di giugno), i datori di lavoro avranno a proprio carico tutti i dipendenti sia se l’attività aziendale è tornata normale sia se (molto più probabilmente) ancora persiste una situazione di crisi.
Le criticità
«Questo ritardo nella pubblicazione sta provocando diverse anomalie - commenta Marina Calderone, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del lavoro -. Il buco normativo ha creato le condizioni per effettuare numerosi licenziamenti, anche perché la prospettiva di molti datori di lavoro non è certo di tornare subito al volume d’affari posseduto ante Covid. L’ideale sarebbe stato spacchettare i contenuti e pubblicare un decreto con i provvedimenti per i lavoratori subordinati e autonomi. Invece si è scelto diversamente e da qui il ritardo non solo nella definizione delle integrazioni salariali ma anche delle iniziative in favore
dell’economia, attese da lavoratori e imprenditori ».
Il parere legale
A causa del “buco normativo”, conseguente alla mancata tempestiva pubblicazione del Decreto Rilancio, le aziende potrebbero essersi sentite autorizzate, in assenza di un’espressa norma di legge che ne vieti la intimazione, a licenziare per ragioni oggettive a decorrere dallo scorso 17 maggio. «Tale mossa — spiega la giuslavorista Roberta Di Vieto, partner di Pirola Pennuto Zei & Associati —sembra doversi ritenere a dir poco azzardata, in considerazione del fatto che, quando il decreto sarà pubblicato, il divieto di licenziamento sarà valido per cinque mesi decorrenti dalla data del 17 marzo». Si profilerà dunque una questione di retroattività di fatto della legge, che verrà in questo modo a e coprire i giorni di vuoto, in ragione della quale sarà necessario stabilire quali dei due interessi in gioco prevalga: l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro oppure quello dell’azienda alla libertà di organizzarsi e quindi di licenziare ? «Non è facile rispondere preventivamente a tale quesito, se non facendo ricorso sicuramente ad uno dei principi ispiratori di tutta la normativa emergenziale di contrasto della diffusione del virus, consistente nella tutela dell’occupazione. E’ ragionevole, quindi, ritenere che, ove dovesse sorgere un contenzioso su tale questione, a seguito dell’impugnazione del licenziamento avvenuto in detto periodo, la tutela possa essere riconosciuta alla parte debole del rapporto di lavoro che è il lavoratore, come peraltro già avviene in altre vertenze di dubbia risoluzione, e ciò a prescindere anche dalla corretta interpretazione della valenza dell’atto giuridico posto in essere dal datore di lavoro».